DELLE PENE, O CONTRO LA PENA DI MORTE



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Per poter discorrere in generale della pena di morte, dobbiamo premettere una breve trattazione delle pene in generale, che chiarisca gli aspetti fondamentali della questione.

Allorché un individuo commette un delitto, il comune senso morale richiede che gli sia inflitta una pena. Occorre però chiedersi quale debba essere razionalmente la natura della pena. Tratteremo dunque la questione da un punto di vista etico piuttosto che giuridico.

Non vi è dubbio che il colpevole, se ha violato la legge morale, non ha agito secondo razionalità. Tuttavia, se la sua azione è stata consapevole, doveva avere un fine. Tale fine non può essere che quello di procurarsi un vantaggio di qualche natura ai danni degli altri membri della società umana. La sua azione ha insomma una razionalità soggettiva, anche se non oggettiva. Se tale fine non esistesse, e si trattasse invece di un'azione priva di una razionalità sia pure soggettiva, il concetto stesso di colpa verrebbe meno, e si ricadrebbe nel caso della malattia mentale. Tralasciamo in questa sede, che non è propria, quest'ultimo caso.

Perché una società umana possa esistere, è necessario che la maggioranza dei suoi membri si comporti sostanzialmente secondo la morale. Se tale rispetto sostanziale della morale mancasse, si cadrebbe nello stato di natura hobbesiano, bellum omnium contra omnes.

In una società funzionante, però, un individuo che violi la morale può procurarsi dei vantaggi. Se tutti i membri della società applicassero la ragione, ciascuno capirebbe che il suo vantaggio nel violare la legge deriverebbe appunto dal danno subito da coloro che invece si comportano moralmente. Poiché però la maggior parte degli uomini agisce secondo il suo vantaggio personale immediato, per dissuaderli dal comportarsi male occorre presentare loro la minaccia di un danno per le trasgressioni. Questo comporta che si formulino leggi scritte, per definire ciò che è lecito e ciò che non lo è e fissare le pene per le violazioni, si creino tribunali per giudicare i trasgressori, si organizzino forze di polizia per individuare i trasgressori e condurli al giudizio anche con la forza, e si istituisca quanto necessario per infliggere le punizioni.

Kant sostiene nella "Metafisica dei costumi" che la pena deve, almeno idealmente, eguagliare il danno fatto (legge del taglione). Questo discende da una concezione essenzialistica dell'etica, in realtà non del tutto coerente con i fondamenti espressi nella "Critica della ragion pratica".

Se infatti ogni essere umano deve essere trattato sempre anche come un fine, e non solamente come un mezzo, ogni punizione deve essere tale che il colpevole sia comunque trattato anch'egli come un fine. La punizione corporale deve pertanto essere bandita: così il taglio della mano del ladro, come il taglio della testa dell'assassino. La punizione deve avere natura morale, e può consistere soltanto nella privazione della libertà o di qualche diritto minore. Uccidere l'assassino equivale a negarne la natura umana, facendone invece una pura causa materiale da rimuovere.

La privazione della libertà toglie comunque al colpevole i vantaggi che egli ricercava con la sua azione delittuosa, ponendolo di fronte a se stesso per lungo tempo, costringendolo a rinunciare al benessere materiale che in molti casi era il suo solo fine e dandogli la possibilità di capire la natura della sua azione. Che egli sfrutti o no tale possibilità non ha importanza, ma la possibilità di per sé non può essergli negata. La morte, per di più, può essere del tutto indifferente al criminale autentico, e lo è certamente per il terrorista fanatico, fallendo pertanto anche come deterrente.

Lasciata da parte ogni considerazione pragmatica, come l'efficacia deterrente e la possibilità di rimediare ad un errore giudiziario, la pena di morte è in ogni caso proibita dalla morale stessa. Il condannato viene trattato come un oggetto pericoloso, senza riguardi né per lui né per quelli che gli sono legati da vincoli di affetto e legali. Se anche l'omicida non dovesse mai pentirsi, quella di non ucciderlo rimane comunque una decisione moralmente corretta. La morale richiede il rispetto di ogni essere umano, senza eccezioni, anche se ha commesso un delitto. La pena di morte mette lo Stato che la infligge sullo stesso piano dell'omicida, che ha ucciso per il suo vantaggio, così come lo Stato uccide per il suo, e ha ragione il più forte.

Alberto Cavallo, 1993