Una nuova speranza


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26 dicembre 2001
Annotata il 19 ottobre 2002

Indice

Alla pagina indice sulla politica internazionale
 

Un governo per l'Afghanistan

Il 22 dicembre 2001, dopo 23 anni di guerra, si è insediato a Kabul un governo provvisorio di unità nazionale, formato sulla base degli accordi di Bonn tra tutte le parti coinvolte, esclusi i soli talebani, ormai annientati.

Il capo del governo Hamid Karzai ha preso le consegne dal presidente Rabbani, che fino a quel momento rappresentava l'autorità legittima dell'Afghanistan, sebbene fino ad ottobre controllasse solo il 10% del territorio, quello rimasto in possesso dell'Alleanza del Nord.

Si tratta di un evento importantissimo, perché dopo tanto tempo l'Afghanistan ha la possibilità di ritornare ad una condizione normale: un governo legittimo, riconosciuto all'estero ed all'interno, con effettivo controllo del territorio. Una forza internazionale, sotto l'egida dell'ONU, garantirà che il governo possa operare per ricostruire le istituzioni, promuovendo la costituzione di un governo effettivamente rappresentativo di tutte le componenti della società afgana, senza che qualche fazione armata tenti nuovamente di prendere il potere a Kabul o di produrre secessioni riprendendo la guerra civile.

Anche i più riottosi signori della guerra, penso ad esempio al comandante uzbeko Dostum, hanno finito con l'accettare il governo Karzai, sotto le forti pressioni dell'ONU e degli angloamericani. D'altro canto, tutti affermano che le forze straniere (ONU e americane) presenti oggi in Afghanistan vi resteranno soltanto per il tempo strettamente necessario a garantire il consolidamento delle istituzioni ed a completare la caccia ai terroristi di al-Qa'ida ed ai capi talebani.

Non lasciamo che il cinismo ci sprofondi ancora in previsioni pessimistiche: ci sono effettivamente le condizioni perché l'Afghanistan ottenga la pace che attende da più di due decenni. Non perché la comunità internazionale sia stata colta da un'improvvisa fulminazione natalizia e George Bush jr. sia diventato Gesù Bambino, ma perché ci sono condizioni oggettive che contribuiscono a questi sviluppi positivi. Spero ardentemente di non sbagliare.

Alberto Cavallo, 26 dicembre 2001

Fino ad oggi, un anno dopo, non sembra che le cose siano molto migliorate: la maggior parte del territorio è nelle mani delle bande armate, il governo controlla solo Kabul e la caccia ai talebani continua...
A.C. 19 ottobre 2002

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Le condizioni per la pace

Il conflitto afgano aveva motivazioni interne ed esterne. Ma le interne non sarebbero mai state sufficienti a precipitare quel disgraziato Paese nell'abisso di violenza e devastazione in cui si è trovato per tanto tempo, senza il robusto contributo delle potenze straniere e dei loro interessi geopolitici ed economici. Non intendo certo tracciare qui la storia dell'Afghanistan, consiglio a chi vuole approfondire questi argomenti di leggere il libro del giornalista pakistano Ahmed Rashid sui Talebani, che contiene una presentazione completa e documentata non solo dei Talebani, ma della storia, geografia e politica dell'Afghanistan nel contesto dell'Asia centrale.

Restando agli eventi degli ultimi anni, è chiaro a tutti che l'avvento dei Talebani fu organizzato dai servizi segreti pakistani e sauditi, con il beneplacito degli USA, per stabilizzare l'Afghanistan dopo che le diverse fazioni dei mujaheddin antisovietici, finita la guerra contro l'invasore esterno, si erano dimostrati incapaci di accordarsi tra loro ed avevano scatenato una guerra civile ancor più feroce, in cui ciascun signore della guerra tentava di allargare il più possibile la propria area d'influenza, se non di conquistare l'intero Afghanistan.

Questo tentativo non andò a buon fine per diversi motivi.

I Talebani2, pur essendo chiamati "studenti", in realtà sono uomini estremamente ignoranti e privi di quel minimo di cultura che è indispensabile anche solo per comprendere il significato delle istituzioni di uno Stato. Questa incultura, unita all'elementare astuzia di cui dev'essere dotato chi riesce a sopravvivere nelle condizioni di totale sfacelo sociale da cui provenivano, li ha resi a loro volta incontrollabili. La presenza dei cosiddetti afgani arabi, i combattenti islamisti accorsi da tutto il mondo musulmano, col favore degli americani, per combattere gli atei sovietici, ha fornito loro una base ideologica estremistica che li ha portati ad individuare nell'Occidente profano e miscredente il nuovo nemico; parallelamente, nella loro elementare abilità di sopravvivenza hanno rapidamente compreso l'opportunità di accordarsi con i trafficanti d'oppio ed i contrabbandieri di qualsiasi altra merce, per procurarsi denaro e mezzi per la loro guerra contro la restante opposizione afgana.

I loro burattinai o aspiranti tali si sono trovati a non avere appigli per mantenere il controllo: individualmente i capi talebani sono rimasti frugali e sostanzialmente incorruttibili, pur essendo pronti ad accordarsi con qualunque mafioso per acquisire, tramite traffici illeciti, i finanziamenti necessari. Per capire la situazione, si consideri che in Afghanistan il consumo di eroina è sempre stato pressoché nullo; la produzione del papavero da oppio era vista dai talebani come una buona opportunità di guadagno, considerando che i consumatori della droga erano gli infedeli occidentali. Che male c'era a finanziare la guerra santa dell'Islam vendendo droga a quei pervertiti degli occidentali? Gli afgani, dal canto loro, tradizionalmente fanno uso di hashish, e la repressione dei talebani si abbatté con violenza sull'uso di questa droga relativamente innocua, col risultato che l'Afghanistan talebano era grande produttore di droghe pesanti ma scarso di droghe leggere.

La questione degli oleodotti e dei gasdotti, spesso considerata fondamentale dai commentatori, è una vera tragicommedia. Esiste un chiaro interesse americano a far sì che il petrolio ed il gas dell'Asia centrale ex sovietica possa giungere al mare senza passare dalla Russia, come avviene attualmente. Dovendosi evitare anche l'altro nemico degli USA, l'Iran, l'unico percorso possibile passa dall'Afghanistan. E' inutile dire che, tecnicamente, converrebbe che oleodotti e gasdotti passassero in Russia e Iran, come già avviene. I tentativi di realizzare questi sistemi di trasporto sono sempre falliti, a causa dell'incapacità dei Talebani di garantire la sicurezza nelle province del Nord, nelle quali essi erano totali estranei, percepiti come invasori e combattuti ferocemente. La loro incapacità di scendere al minimo compromesso con l'opposizione afgana, incomprensibile per i governanti occidentali e per le multinazionali del petrolio, i cui esponenti sono sempre pronti a scendere a patti anche con Belzebù in persona, li ha resi inutili al fine di consentire la realizzazione degli oleodotti, rendendo impossibile la soluzione del conflitto nel nord. Ovviamente ha molto contribuito la determinata opposizione della Russia, che ha sabotato l'iniziativa con ogni mezzo a sua disposizione. Del resto i Talebani, per la Russia, erano una minaccia mortale, perché avrebbero potuto destabilizzare tutta l'Asia centrale. Analoga considerazione vale per la Cina, preoccupata per la situazione dello Xingjiang, dove è attiva una guerriglia islamica anticinese.

Il risultato netto, già in settembre, era chiaro: i Talebani  non erano stati in grado di garantire nemmeno la possibilità di avviare i lavori, che comunque sarebbero lunghi e difficili per la natura aspra e tormentata del territorio afgano, mentre i russi hanno tranquillamente inaugurato il nuovo oleodotto di Novorossijsk, che porta il petrolio asiatico sul Mar Nero. Un fallimento totale per i signori texani del petrolio, che avrebbero potuto salvare la situazione se avessero inghiottito il rospo e accettato di accordarsi con l'Iran, l'unica vera alternativa alla Russia.

Per di più i talebani avevano rotto i rapporti con il governo saudita, legandosi strettamente all'opposizione saudita islamista e antioccidentale, che possiamo identificare in bin Laden, sebbene i veri leader siano probabilmente altri.

Insomma, ciascuno aveva i suoi motivi, anche contraddittori, ma americani, russi, cinesi e sauditi volevano tutti la distruzione dei Talebani e la stabilizzazione dell'Afghanistan. Come nell'esito del Grande Gioco ottocentesco tra impero russo e impero britannico, l'Afghanistan torna ad essere uno Stato cuscinetto la cui stabilità è nell'interesse di tutti.

Se gli americani hanno compreso, come ritengo che sia, la gravità dell'errore commesso quando hanno strumentalizzato l'estremismo islamico contro i sovietici, poi i russi, ed i cinesi, allora possiamo contare almeno per un certo tempo sul fatto che qualunque signore della guerra provi a destabilizzare il governo Karzai, si troverà ad affrontare una minaccia esterna insostenibile.

L'Afghanistan ha dunque la sua grande occasione per ritornare alla pace.
 

Alberto Cavallo, 26 dicembre 2001

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Un intervento giustificato e necessario?

L'analisi esposta nel seguito, alla luce di ulteriori dati e approfondita riflessione, mi pare oggi errata in alcuni punti. Ho aggiunto annotazioni in corsivo dove necessario. A.C. 19 ottobre 2002

L'intervento agloamericano in Afghanistan ha suscitato discussioni e polemiche. Oggi la fase dei combattimenti è terminata, anche se prosegue la caccia agli uomini di al Qa'ida, e si susseguono voci e smentite sull'eventuale morte di Osama bin Laden: possiamo ritornare sul tema della sua liceità ed opportunità a cose fatte.

Ho espresso la mia opinione fin dall'inizio, schierandomi a favore dell'intervento. In primo luogo, ho spiegato come non ci fossero motivi di illegittimità, sulla base della carta delle Nazioni Unite e degli altri accordi internazionali applicabili; ho nuovamente risposto in tal senso alle obiezioni che mi sono state sottoposte. Non ripeto qui neppure le considerazioni generali già fatte, sulla base delle quali non era solo legittimo ma doveroso combattere. Richiamo invece le circostanze generali in cui ci si è trovati.

L'Afghanistan, per effetto del maldestro tentativo di pacificarlo mediante i Talebani, era diventato un'ottima base per il terrorismo di matrice islamista. I Talebani avevano fatto ricorso ai cosiddetti afgani arabi per appoggiare le loro forze militari, fanatizzate ma poco esperte, con combattenti ben addestrati e pronti a tutto. I contatti erano stati favoriti dai loro stessi sostenitori pakistani e sauditi, salvo che la rete di al-Qa'ida aveva finito col rivelarsi nemica del governo saudita e favorevole al rovesciamento di tutti i governi di Paesi islamici che mostrassero accondiscendenza verso l'America e l'Occidente in generale.

Il regime talebano era quindi diventato il miglior ospite di tutti gli islamisti del mondo: controllando il 90% dell'Afghanistan, poteva offrire luoghi sicuri per i campi di addestramento; sembra che le linee aeree afgane, finché furono operative, trasportassero in giro per il mondo bin Laden ed altri esponenti di al-Qa'ida, intenti alla creazione di una rete terroristica su scala mondiale.

Da soli? Certo ebbero l'aiuto o almeno godettero dell'inazione alquanto sospetta di altri servizi segreti. Considerando lo strettissimo legame ormai emerso tra talebani e ISI pakistano, non è pensabile che non ne sapessero nulla. Non vado oltre, per ora, per mancanza di prove, vedere però Guerra alla libertà di N.M.Ahmed.

Ma l'Afghanistan non è, come può sembrare a chi lo conosce poco, un Paese periferico ed insignificante. Al contrario, è da sempre il crocevia dell'Asia, punto di passaggio obbligato tra Iran (Persia), regione indiana e le pianure dell'Asia centrosettentrionale. Dopo il collasso dell'Unione Sovietica, l'area è diventata pericolosamente instabile, e per di più custodisce grandi riserve di petrolio e gas ancora non sfruttate, seconde solo a quelle dell'Arabia e del Golfo Persico.

La presenza di un non-stato (un territorio che non è più sede di uno Stato in senso proprio, dove quindi nessuno ha il monopolio legittimo della forza), sede di organizzazioni terroristiche attivissime nell'esportare l'estremismo islamico per destabilizzare i Paesi vicini, non era più tollerabile neppure per coloro che l'avevano favorita e causata. Soltanto il Pakistan continuava a sostenere attivamente i Talebani, non soltanto perché erano sue creature, ma perché i loro legami col regime e con la stessa società civile pakistana erano strettissimi: molti di loro erano cittadini pakistani, tutti dell'etnia pashtun che occupa gran parte del territorio pakistano ai confini con l'Afghanistan, oltre che appunto l'Afghanistan meridionale; forze armate e servizi segreti pakistani, nonché imprese private, specie di trasporti, erano infiltrate da talebani ed islamisti in genere. Il coinvolgimento del regime pakistano nei traffici illeciti sfruttati dai talebani stessi per finanziarsi aveva finito per creare in Pakistan una pericolosa commistione tra politica, militari e criminalità organizzata.

L'Afghanistan talebano non era un non-stato, lo è di più quello di oggi. I talebani controllavano gran parte del territorio, oggi il governo di Kabul controlla la città e poco altro.

Una situazione insostenibile, che avrebbe potuto portare all'instaurazione di un regime islamista anche in Pakistan, oltre che nelle repubbliche ex sovietiche, alimentando per di più  la rivolta anticinese nello Xingjiang.

Gli attentati dell'11 settembre hanno fornito l'occasione per sanare questa situazione. Questa può sembrare una considerazione cinica, ma dobbiamo subito liberarci dalla fallace opinione che la politica internazionale sia un contesto morale. Non esistendo l'equivalente di uno Stato mondiale (forse per fortuna), che possa imporre comportamenti cooperativi, vige il principio che ciascun soggetto, Stato od organizzazione di altro genere persegue con ogni mezzo unicamente i propri interessi, o quelli che percepisce come tali. Soltanto la lungimiranza dei governanti da un lato, il peso di movimenti di opinione e di interessi non governativi dall'altro, possono influire nel senso della creazione e dell'applicazione di un sistema di regole e codici di comportamento che siano meglio di un hobbesiano bellum omnium contra omnes. Era dunque interesse del mondo che i Talebani fossero messi in condizioni di non nuocere, e così è avvenuto.

Ho forse scoperto le carte e mostrato che gli attentati erano un semplice pretesto? No, non direi. Ho esposto già altrove una lista di ipotesi sulla natura degli attentati di New York e Washington. Resto dell'idea che esista un movimento islamista infiltrato in più di un regime di Paesi islamici, capace di organizzare una rete mondiale del terrore di cui bin Laden è (o era) un esponente anche se non il capo, tantomento l'unico leader. Questo movimento intende rovesciare tutti i regimi filooccidentali o ritenuti tali, per primo quello dell'Arabia Saudita, allontanando gli occidentali dalle terre islamiche ed unificando tutti i popoli islamici sotto un'unica guida, occulta o manifesta che sia.

Gli attentati avevano lo scopo di:

  1. spingere gli USA ad una reazione indiscriminata contro Paesi islamici, tale da suscitare vaste reazioni popolari contro gli USA medesimi e contro i regimi loro amici;
  2. intimorire ed umiliare in generale gli americani, dei quali il movimento ha scarsa stima, considerandoli corrotti ed imbelli;
  3. intrappolarli in un conflitto "stile Vietnam" in Afghanistan, come accadde ai sovietici.
Non era un piano così assurdo come alcuni lo dipingono. Gli islamisti erano convinti che gli USA non sarebbero stati in grado di risolvere il conflitto afghano: l'aviazione non sarebbe stata sufficiente, ed i loro soldati avrebbero dovuto affrontare i Talebani sul terreno, in condizioni sfavorevoli, subendo perdite crescenti. A questo punto l'opinione pubblica americana si sarebbe opposta alla continuazione della guerra e gli islamisti avrebbero trionfato. Ricordiamo che questo scenario si è realizzato finora in due casi importanti ed almeno uno minore: in Vietnam con gli americani stessi, in Afghanistan con i russi, in Somalia (caso modesto ma significativo per la partecipazione di islamisti legati ad al-Qa'ida) ancora con gli americani.

L'analisi è corretta per il punto di vista degli autori diretti dell'attentato, ma il cui prodest porta in altre direzioni, vedere Guerra alla libertà di N.M.Ahmed.

E' chiaro il ruolo che avrebbero avuto i pacifisti come involontari alleati degli islamisti: essi contano fortemente sul movimento contro la guerra per far fallire le iniziative belliche occidentali. Non sto criminalizzando il pacifismo, voglio solo mostrare come un atteggiamento ingenuo e non critico rischi di essere strumentalizzabile e a lungo termine controproducente. Non ci si può opporre alle azioni militari sempre e comunque, per principio: occorre invece valutare caso per caso. L'incapacità dei pacifisti di discriminare le situazioni li rende disponibili come alleati, pur involontari e benintenzionati, di individui privi di scrupoli.

Qualche volta potrà essere vero, ma stavolta i pacifisti avevano ragione, quello che è accaduto in Afghanistan è stato orribile ed ingiustificato. La lotta contro il terrorismo non c'entra, perché le complicità internazionali passavano attraverso il Pakistan e l'Arabia Saudita, arrivando forse fino a certi circoli negli USA. Non si combatte il terrorismo bombardando la povera gente di un paese ridotto allo stremo.

Il piano degli islamisti è fallito perché il governo americano si è mosso con accortezza: invece di usare soltanto la forza bruta, ha tessuto una rete di alleanze e consensi coinvolgendo Russia, Cina, India, Pakistan e Stati dell'Asia centrale. Gli attacchi aerei sono stati diretti contro obiettivi militari molto più che civili (al contrario di quanto avvenne in Jugoslavia), e si è passati presto all'azione militare di terra, affidata all'Alleanza del Nord ma anche alle tribù pashtun del Sud, coinvolte anch'esse con azione diplomatica e con adeguati contributi economici (insomma, pagandoli). Il governo Bush, ritengo principalmente per merito del segretario di Stato Colin Powell, ha dunque saputo usare la forza con raziocinio, a differenza di altri governi americani precedenti. Se confrontiamo la situazione dell'Afghanistan con quella della Jugoslavia, notiamo come sia stato anche preparato opportunamente il seguito politico dell'azione militare: ora abbiamo in Afghanistan un governo di coalizione multietnico, mentre in Kosovo ed in Bosnia la pace è assicurata soltanto dalla presenza delle truppe straniere che tengono separate le fazioni in lotta.

L'intervento angloamericano ha colpito sicuramente alcune delle basi più importanti dei terroristi, ha eliminato un gravissimo pericolo per la stabilità dell'Asia, ha posto fine ad un conflitto che durava da 23 anni, offrendo agli afgani la possibilità di ricominciare la vita civile. Certo non ha eliminato il movimento islamista, ed occorre ora affrontare le altre crisi gravissime ancora aperte: in Palestina soprattuto, e poi sempre in Asia centrale, nel Kashmir.

Purtroppo il conflitto non è finito, i vari capi delle milizie tribali sono ben in sella ed il governo di Kabul, che controlla solo la capitale, dipende esclusivamente dai militari occidentali. Il mutamento del quadro geopolitico, invece, è molto a favore del piano dei signori americani del petrolio per controllare l'Asia centrale, con basi militari permanenti, la cui presenza viene giustificata dalla minaccia terrorista...

Alberto Cavallo, 26 dicembre 2001
Alberto Cavallo, 19 ottobre 2002

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Note

(1) Ahmed Rashid, "Talebani - Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale", Feltrinelli, novembre 2001.
(2) Uso il termine italianizzato, l'originale sarebbe taliban, plurale di talib, che significa studente (di una scuola coranica).
 
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